Serie Principale

domenica 13 maggio 2018

QUANTO È BRAVO DONALD GLOVER

Come testimonia il successo di Tommaso Paradise, sono da tempo tornati di moda – o forse non se ne erano mai andati – gli 80s con le loro 808, i synth e per fortuna non le acconciature. Ha i suoi lati divertenti questo revival, per quanto abbia un retrogusto di revisionismo storico: non tutto quello che veniva suonato in quegli anni merita di essere ricordato ma soprattutto, guardandola a posteriori, la new wave assume i contorni di un prodotto. Un pezzo di punk asportato dall’industria discografica, schiacciato, stirato e modellato dalla stessa in una forma che appagasse un più vasto pubblico, che fosse più pop. Ok, ma che c’entra Donald Glover?  


Qualche giorno fa è uscito il video del singolo This Is America di Childish Gambino a.k.a. Donald Glover, a.k.a. Lando Calrissian, a.k.a. altre cose, che ha monopolizzato le discussioni nell’etere come raramente succede. Ok no, succede sempre, ma raramente in questo modo. E non c’è da stupirsene: Donald Glover non è mai stato limpido nelle sue creazioni; ti stuzzica con immagini e suoni, ti fa intuire che c’è un ulteriore livello di lettura e ti spinge, idealmente, a scoprirlo. È un modo di fare arte profondamente del nostro tempo, dell’epoca dei social, di reddit, del citazionismo sfrenato. Childish Gambino è indubbiamente figlio del suo tempo – lo stesso moniker, “Childish Gambino” è una creatura di internet – a volte anche troppo: ve lo ricordate because the internet? Manco a dirlo, il filo conduttore di quel suo secondo lavoro in studio era il linguaggio del web e la sua sintassi universale. Ciò che tuttavia non è sempre universale è la frase con il suo significato: di fatto quell’album farcito di riferimenti vari era incomprensibile a chiunque non fosse particolarmente “woke”, figurarsi ad un europeo. Da allora sono passati cinque anni, un album e due stagioni di Atlanta e forse abbiamo più strumenti per addentrarci nelle circonvoluzioni di uno dei personaggi più eclettici di questo decennio. Su internet si trovano innumerevoli articoli che spiegano o tentano di spiegare ciò che si vede nel video, tutte interpretazioni valide che qui non ripeterò. Quello su cui vorrei concentrarmi non è tanto ciò che accade sullo sfondo ma la figura di Gambino. Tutti sembrano concordare su due cose: il riferimento a Jim Crow – maschera ottocentesca, personificazione satirica e razzista degli stereotipi legati agli afroamericani – e il fatto che in qualche modo quel modo di muoversi serva a catalizzare l’attenzione spostandola da ciò che succede dietro. Sono entrambi spunti importanti, a cui però si può aggiungere un passaggio.


In una puntata di Atlanta: Robbin’ Season Darius ha una conversazione con quel capolavoro di personaggio che è Teddy Perkins, il quale afferma “Rap never quite grew out of his adolescence.”. (È l’ultima volta che cito Atlanta, giuro). Il ballare di Gambino nel video è sì stereotipato, grottesco quasi ma, unito al testo, rimanda anche a balli demenziali realmente esistenti, attuali, e in generale a quella “cultura di internet” tanto cara a Glover; una cultura che è in effetti immatura, adolescente appunto. L’impressione è che sia proprio quella cultura a dettare le mosse di quella danza. Insomma Childish Gambino nel video rappresenterebbe – il condizionale è d’obbligo – una sorta di personificazione dell’hip-hop di oggi, costretta a muoversi secondo le regole del contesto pop nel quale si è trovato immerso, più o meno consapevolmente alla ricerca di approvazione da parte del pubblico – in tal senso fa specie l’insistenza con la quale guarda in camera. Sullo sfondo la realtà, violenta, drammatica e impossibile da raccontare, non per mancanza di volontà ma perché non ha sufficiente presa su di un’audience che non è direttamente coinvolta da essa.


All’affermazione di Teddy Perkins, Darius risponde che “Sometimes people just want to have a good time.” ed è vero: la comunità afroamericana non ha bisogno di sentirsi predicare ciò che già sa. La realtà violenta e drammatica la vivono quotidianamente, loro, ma tutti gli altri? L’hip-hop è uscito dalla sua nicchia da tempo ormai, è ascoltato in modo trasversale e per molti ha per forza di cose perso un contesto, associabile solo a notizie vaghe lette di sfuggita nel feed di Instagram. È anacronistico parlare di colpe dell’industria discografica nel 2018, ma ci sono un buon numero di analogie con quello che successe al punk negli anni ’80: un genere di nicchia, nato all’interno di una minoranza, fagocitato dal pop per poi essere rigurgitato senza spigoli, innocuo. In altri termini, un’appropriazione culturale. La differenza è che mentre la parola punk è ormai diventata di per sé uno stereotipo, direttamente associata ad un’immagine privata di contenuto, l’hip-hop conserva ancora la sua capacità di rappresentare una cultura, seppur minoritaria, in tutti i suoi aspetti. This Is America sembra voler avvertire che per far sì che questa sua capacità si conservi anche fuori dalla sua nicchia ecologica originaria serve impegno attivo da parte di chi narra e da parte di chi ascolta.
E se era veramente questo l’intento be’, non poteva essere reso in maniera migliore. Chapeau.


Davide Quercia

Nessun commento:

Posta un commento