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lunedì 30 aprile 2018

IL PROBLEMA DI CHI HA PROBLEMI CON KANYE


I più anziani di voi ricorderanno i tempi, ed erano bei tempi, in cui questo illustre blog ospitava di tanto in tanto i miei discorsi improbabili su musica e dintorni. Ebbene, l’eterno ritorno dell’uguale mi riporta qui, a scrivere di altri discorsi ancora più improbabili. Ringrazio l’Accademy e tutti quelli che hanno creduto in me. (Ri)Cominciamo.
Questo articolo doveva essere su Kendrick, che ha vinto il Pulitzer e tutto quanto, ma più andavo avanti a scrivere più mi tornava in mente una puntata di Atlanta in cui Paper Boi è ospite di un talk show surreale alla fine del quale tutti sono d’accordo tra loro e il conduttore non sa che pesci pigliare per rendere interessante il dibattito. Perché la verità è che in fondo tutti sono d’accordo sul Pulitzer a Kendrick: ha vinto perché è bravo, fine. Dovevo quindi trovare qualcosa su cui la pensavo differentemente, almeno un poco; quanto basta per scuotere la testa leggendo le opinioni altrui, come i politici nei talk show reali. E poi è arrivato lui: “The savior of Chicago” come lo chiamano – e con “lo chiamano” intendo “lui chiama sé stesso” – Kanye West.

Se in queste ultime due settimane non avete vissuto in una caverna per sfuggire a mandati esplorativi e/o spoiler di Infinity War, avrete di sicuro sentito parlare della frenetica attività del buon (ma lo sarà davvero buon? Eh eh.) Kanye su Twitter. Da quando è tornato sul social network – un paio di settimane fa – al momento in cui sto scrivendo queste righe, ha twittato circa 280 volte. Duecentocinquanta cinguettii che, quando letti tutti d’un fiato (se no lo avete fatto, fatelo), provocano come reazione più immediata un “Qualcuno gli tolga il telefono dalle mani per carità di dio”.
L’inizio della fine è stato l’annuncio del suo libro di filosofia, su Twitter. No, non l’annuncio su Twitter, proprio il libro. In comode pillole di saggezza kanyeana di 140 280 caratteri ciascuna. Fin qui tutto divertente, direte, finche:


AH. Bene. Bene così. Un bel cappellino “MAKE AMERICA GREAT AGAIN” con tanto di autografo del Donald. Che ovviamente non perde l’occasione per ringraziare: “Hey guardate, un personaggio dello spettacolo che non mi odia! Un altro grande successo della mia amministrazione!”
Da qui in poi Paura e Delirio. Polemiche. Articoli (questo, ad esempio). Facciamo un passo indietro. Come ha detto anche John Legend in uno scambio di messaggi condiviso su Twitter – e dove sennò – Kanye è l’artista più influente della sua generazione. Ha rivoluzionato il modo di intendere l’hip-hop e se nel 2018, Spotify alla mano, esiste l’equazione hip-hop = pop (in senso lato) è anche conseguenza del suo approccio ad entrambi questi mondi. Non mi spingo a dire che Kanye sia un genio, né tantomeno che questo possa giustificare un endorsement ad uno dei personaggi più discutibili e discussi del momento, ma penso possiamo essere tutti concordi nel dire che Kanye è un personaggio unico. Ed il suo pensiero non può essere che tale: Kanye West vive per essere unico, per fare di testa sua, per rompere i meccanismi di qualunque cosa si trovi davanti, per stupire, infine. Da campionare i King Krimson a dire in diretta tv “Bush doesn’t care about black people”, tutto nella sua carriera è una dichiarazione fatta con lo scopo di dimostrare il suo essere non sostituibile, più reale degli altri (semicit.). Peraltro, ascoltando il testo del suo ultimo brano “ye vs the people” (che trovate qui) appare palese quanto lui sia consapevole della sua stessa natura “perturbatrice” (oltre che messianica, ma ormai di quello ce ne siamo fatti una ragione):

I feel a obligation to show people new ideas
And if you wanna hear 'em, there go two right here
Make America Great Again had a negative perception
I took it, wore it, rocked it, gave it a new direction
Added empathy, care and love and affection
And y'all simply questionin' my methods

Un altro dettaglio importante è che Kanye non è Morrissey. Ha reso esplicito il suo appoggio al personaggio Trump, non alle sue idee o alla suo operato (per ora). Ha twittato anche apprezzamenti nei confronti di Donald Glover e sono sufficienti dieci secondi di Atlanta (ma voi guardatene più di dieci secondi, mi raccomando) per accorgersi che le sue idee non coincidono esattamente con quelle dell’amministrazione Trump. L’ammirazione verso il quarantacinquesimo presidente non ha, forse in modo un po’ naif, connotati politici, ma è un’attrazione culturale: sono entrambe figure importanti, influenti, da sempre controverse e soprattutto di primo piano della cultura pop americana di oggi. È sufficiente vedere il numero di meme a loro dedicati. Tutto si misura in meme nel 2018.



Proprio per questo anche l’argomentazione “non è obbligato ad essere democratico in quanto nero” è fiacca – non me ne voglia Chance the Rapper – perché viziata dalla stessa visione dicotomica “noi vs. loro” che ha ormai contagiato ogni dibattito rendendo qualsiasi posizione intermedia o ambigua difficile da accettare e comprendere. Insomma, lasciate che Kanye rimanga Kanye. E vogliateli bene sempre, che ne ha bisogno.

Davide Quercia

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