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martedì 6 marzo 2018

OSCAR 2018 - PERCHÉ IL CINEMA HA PERSO ANCORA


La cerimonia politica più cinematografica dell’anno ha chiuso i battenti rimandandoci alla prossima edizione. È arrivato il momento di tirare le somme per la notte degli Oscar 2018, tra vincitori e vinti, esclusi e sorprese, nel segno del politically correct. Il 2017 è stato un anno pieno di spunti interessanti per connotare in chiave politica la premiazione dell’Academy, ma tra i tanti, a discapito delle premesse più strettamente legate al mondo di Hollywood, ha probabilmente prevalso la questione messicana, in linea con le candidature. Ma, in pieno regime democratico, questa prevalenza non ha annullato altre battaglie civili fondamentali: dallo scandalo molestie alla questione afroamericana; trasformando rapidamente la serata in una caccia alla battaglia sociale dietro il premio. Quest’anno donne e ispanici sulla cresta dell’onda, al ribasso asiatici e omosessuali. La borsa dell’Oscar.


La cerimonia si è aperta con un monologo compassato di Kimmel che ha introdotto e liquidato in pochi minuti il caso Weinstein, aprendo la strada ad una serata costruttiva e non distruttiva. Il resto della conduzione si è trascinato dall’ombra di questo primo momento e - ad eccezione di un paio di momenti d’ilarità in cui il paradigma delle star è stato capovolto - l’opera di collegamento di Kimmel si è attestata sul livello scadente delle ultime edizioni. Non vedo più presentatori in grado di dare un’impronta indelebile alla cerimonia, e forse ciò andrebbe contro gli interessi dell’Academy, ma questo format mette su un piano marginale la conduzione e tutto ciò che un autore televisivo o un comico può portare di suo dai programmi che struttura parallelamente agli Oscar. Anche il presentatore, negli ultimi anni è stato sacrificato sull’altare del buon gusto.

"Questo lo poggio qui. Che nessuno lo tocchi"
E invece...

E quindi le premiazioni. Dividerei gli Oscar in due categorie: i premi tecnici o minori e i premi maggiori. La distinzione sta nella visibilità e nell’eco che un premio ha e mantiene nel tempo. Da una parte momenti secondari che saranno presto tradotti in numeri dall’industria cinematografica, dall’altra momenti di visibilità assoluta da strumentalizzare all’occorrenza. Le categorie minori hanno visto quindi trionfare film meno inseriti nel dibattito politico e quindi l’assegnazione potrebbe essere stata meno influenzata dal momento storico, le categorie maggiori hanno invece subito il peso del contrasto contro il governo Trump a cui era chiamata la serata delle stelle. Allora alcuni premi hanno intrinsecamente in loro un valore che travalica l’ordine della settima arte. E il cinema passa troppo rapidamente da essere veicolo di messaggi sociali a strumento di propaganda. Perché a questo punto la competizione prettamente tecnica ha da tempo perso la sua ragion d’essere.


Il muro ai muratori. Tema cardine: il muro che il presidente ha ordinato di completare nella sua legislatura a difesa del confine col Messico. Quindi prima alcuni accenni sul red carpet, Salma Hayek che accentua l’accento ispanico e altri siparietti preparati, poi Coco, che vince con merito il premio per il miglior film d’animazione e sul palco si presenta una squadra di Messicani tra cui un bambino che ha il solo compito di concludere il discorso con un “Viva Mexico”; infine il vincitore morale e materiale della serata: The Shape of water di Guillermo del Toro. Miglior regia, miglior colonna sonora, miglior scenografia e soprattutto la statuetta delle statuette per il miglior film. Era effettivamente il miglior film? Probabilmente no. Moonlight - se qualcuno ancora ricorda questo titolo - era effettivamente il miglior film dell’edizione 2017? Assolutamente no. Allora cosa stiamo premiando? Cosa stiamo guardando? Eppure c’è stato un peggioramento evidente nella scelta dell’Academy che ha inficiato ancor di più la competizione: se la motivazione per la premiazione di Moonlight era legata sì alla troupe totalmente afroamericana, ma anche e soprattutto al fatto che questo spirito fosse trasposto su pellicola attraverso le tre età del protagonista, per The shape of water non si può dire lo stesso e il grande supporto alla vittoria del film di del Toro è stato il regista stesso e la posizione del trio messicano (del Toro, Iñarritu, Cuaron) rispetto all’Academy. Nell’ottica della premiazione dello scorso, il premio per il miglior film quest’anno sarebbe dovuto ansare a Tre manifesti ad Ebbing, Missouri, che incarna un pensiero politico nel linguaggio cinematografico - oltretutto un messaggio forte e ben strutturato contro il regno di violenza di Trump - ma con il condizionamento esterno di tutto ciò che ha prodotto un film come The shape of water, il cinema è finito alle ultime posizioni nella decisione finale; e forse questo premio è andato anche contro del Toro stesso, mettendo in secondo piano l’amore incondizionato per la settima arte che l’autore ha infuso nella sua opera.
E allora assumiamo gli Oscar per quello che resta di una competizione sociale: un manifesto di solidarietà, uno spettacolare passatempo per il cinema.

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