giovedì 1 marzo 2018

MUTE - CHE FINE HA FATTO DUNCAN JONES?

Dopo aver monopolizzato il mondo delle serie tv, Netflix ha deciso di investire cifre importanti anche sui lungometraggi originali distribuiti direttamente attraverso la piattaforma streaming. La riprova del cambio di scelta produttiva è stata la distribuzione del trailer di The Cloverfield paradox a livello internazionale attraverso la vetrina offerta dal superbowl dello scorso 5 febbraio.


Tra i vari prodotti originali Netflix di questo inizio 2018 spicca Mute, thriller sci-fi ad alto budget diretto da Duncan Jones. Il vero motivo d’interesse verso questo film, dal mio punto di vista, non stava tanto nello sviluppo del paradigma Netflix in ambito cinematografico, ma proprio nella figura del regista, primogenito di David Bowie, già autore di due instant classic come Moon e Source code, prima di dedicarsi al fallimentare progetto Warcraft. Il nome di Duncan Jones racchiudeva in se le enormi premesse di Mute: in primo luogo certamente il ritorno del regista alla fantascienza più pura dopo la parentesi fantasy; proprio in questo genere Jones aveva saputo dare prova delle sue indiscusse capacità cinematografiche. Il film si presentava inoltre come il seguito spirituale di Moon. In secondo luogo l’omaggio al padre defunto, omaggio voluto proprio in occasione di questo film, ambientato nella Berlino che aveva saputo ridare a David Bowie lo stimolo per rilanciare ancora una volta la sua figura musicale con la celebre trilogia. Inevitabile infine il confronto con Blade Runner, e di conseguenza con il suo seguito Blade Runner 2049: quando scegli una certa colorazione, quando la metropoli fa da sfondo al dramma di un giustiziere solitario, quando la macchina da pesa scende in quel modo nella prima scena cittadina, non puoi esimerti dal confronto con la leggenda, e uscirne con le ossa frantumate è molto più facile di quanto sembri.


Nonostante le ottime premesse, Mute appare fin da subito scadente sotto molti punti di vista, a partire dalla messa in scena clamorosamente mancata: il futuro ricreato del regista è artificioso e non rispecchia l’evoluzione del nostro presente, ma un 2052 alternativo, parallelo, in cui il gusto estetico e pratico ha seguito una linea totalmente differente. Dopo un incipit efficace in cui vediamo il protagonista perdere l’uso della parola in seguito ad un incidente in barca, il film smarrisce la rotta e naufraga presto verso una sequela di eventi macchinosi e senza ritmo. L’indagine alla ricerca di Naadirah, la ragazza di capelli blu, è sconclusionata e la costruzione del sistema di enigmi, ricompense e indizi risulta abbozzato, talvolta campato per aria da un punto di vista logico. I pochi momenti potenzialmente carichi di patos vengono rovinati da una scrittura scialba o dai personaggi fuori luogo. I personaggi rappresentano infatti uno dei problemi maggiori della pellicola: salvo rare sequenze, gli attori sono perennemente fuori parte e - di conseguenza - i personaggi che interpretano sembrano non essere realmente presenti  sulla scena. In tutto ciò la regia, la fotografia e gli aspetti tecnici della pellicola non intervengono a salvare il salvabile, ma lasciano che la barca vada a fondo con tutto l’equipaggio.


In linea generale nulla va per il verso giusto e uno dei prodotti di punta di Netflix per questo 2018 si è rivelato essere un clamoroso buco nell’acqua che non rende giustizia alle capacità del regista e fallisce anche nell’intrattenimento più basilare. Ma facciamo un passo oltre e lasciamo per un attimo da parte la piattaforma streaming  per concentrarci su Duncan Jones. Il regista aveva stupito critica e pubblico con i primi due film dimostrando una mano dotata, la giusta ambizione per emergere con un cinema spesso considerato di nicchia e un sincero amore per il genere fantascientifico. caratteristiche che gli hanno aperto diverse porte e l’hanno spinto al di là della sua comfort zone, la situazione artistica e lavorativa in cui riusciva a infondere il suo spirito nelle pellicole. Guardando agli ultimi due lavori possiamo dire che l’autore appare non più in grado di dare senso e ritmo a immagini riciclate, sbiadite nonostante i colori forti, momenti che tendono sempre più verso un trash non ricercato ma occorso. Mute manca di troppa qualità per poter competere con la nuova fantascienza di Denis Villeneuve, da Arrival a Blade Runner 2049. Tra Mute e il seguito di Blade Runner passano idealmente appena 3 anni, ma il primo è anni luce dietro rispetto alla storia dell’agente K e i due futuri descritti non sono minimamente paragonabili.


Perché credere ancora in Duncan Jones? Il cinema come arte, espressione di un’idea non s’improvvisa, ma arriva dal profondo ed emerge con lo studio e la pratica. Jones ha dimostrato di avere un’attitudine artistica - questo è innegabile. L’autore non ha ancora sviluppato la capacità di individuare i progetti più adatti alle sue peculiarità. Mute non è solo un’opera manchevole, ma un prodotto sbagliato nella costruzione e nelle intenzioni. Ripartire dalla passione più sincera, ragionare sul concetto prima della realizzazione. E io, dopo il secondo flop consecutivo, aspetto ancora il ritorno di un grande regista.

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