giovedì 30 novembre 2017

DETROIT - IL FILM PIÙ IMPORTANTE DELL’ANNO

Kathryn Bigelow mette le sue indiscutibili doti al servizio di uno specchio planetario che taglia trasversalmente le pieghe del tempo, restituendo un’immagine di ieri che è il ritratto di oggi. Ma le fondamenta di questa nostra società impediranno alla storia di irrompere fragorosamente domani?


Nel 1967, in un’epoca di grandi cambiamenti sociali, la città di Detroit, nel Michigan, fu il teatro di una rivolta urbana che presto si trasformò in una vera e propria guerriglia. A scatenare gli eventi drammatici fu l’ennesimo abuso da parte della polizia locale che irruppe in una casa privata del quartiere nero per interrompere una festa e condurre tutti i presenti in caserma. Gli scontri durarono quattro giorni, dal 23 al 27 luglio. 43 morti, 1.189 feriti, più di 7.200 arresti e oltre 2.000 edifici distrutti. La storia del film si concentra su alcune di queste morti avvenute nel teatro degli orrori dell’Algiers Motel.



Detroit è un dramma dal taglio documentaristico in tre atti, scritto con mestiere e realizzato a regola d’arte. La prima parte della pellicola si preoccupa maggiormente di contestualizzare la violenza, e all’interno della ricostruzione storica vengono brevemente anticipati i personaggi principali che saliranno poi in cattedra nei restanti due atti. La contestualizzazione del momento storico rende tangibile una tensione vitale esplosa a seguito della condizione alla quale era costretta la popolazione nera in quegli anni. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Eppure è palese che non si tratti del blitz nella casa privata e neppure delle vetrine infrante, ma le scintille fanno luce su un fuoco che ardeva da tempo, alimentato dal pensiero come dalle azioni di una popolazione divisa in se stessa. Un patteggiamento è impossibile; la regista non cade nella banale spettacolarizzazione del dolore che distingue i buoni dai cattivi, il nero dal bianco. Ogni momento si trascina dietro un peso ideologico insostenibile che diventa la sconfitta del reale. La rabbia è forse l’unico sentimento distinguibile nella confusa guerra civile che si apre nella città di Detroit nella notte del 23 luglio 1967, i suoni armoniosi dei gruppi vocali lasciano il posto ad un rabbioso rumore.



Nel secondo atto vengono ripresi i pochi personaggi caratterizzati durante il primo e il contesto lascia il posto ad un’azione. La trama prende piede per raccontare una storia drammatica tra le molte tragedie di quei giorni. Una pistola da starter è il pretesto per scatenare la violenza omicida della polizia locale. La situazione iniziale, tranquilla sull’orlo della crisi, degenera sempre più mentre vengono scoperte le umanità dei ragazzi del motel e dei loro seviziatori. Il film si spinge all’apice del ritmo in una spirale di segregazione e massacri da togliere il fiato per la loro gratuità.



Il terzo ed ultimo atto dell’opera si slega da una ricostruzione storica aristotelica, abbandona il campo di battaglia e riprende la storia narrando brevemente gli eventi salienti dei mesi a seguire. Si tratta del momento della caccia ai colpevoli, il momento del processo e della (as)soluzione. Nelle ultime sequenze la regista abbandona il crescendo di ansia e disgusto, abbandona i colori forti, i rumori, la notte del dramma. Sembra un altro mondo, un’altra vita, perché la società ha voltato pagina e un processo messo in piedi dagli stessi torturatori sembra un buon compromesso per superare la crisi sociale. Ma questo processo agli uomini è la soluzione ideale per le concause che avevano acceso la miccia della situazione incipiale? Da quelle notti, immagine di un dolore ben più profondo e tornato in letargo, è rimasto in sospeso un conto umano e umanitario che ancora oggi continua ad incidere nella guerra razziale. Sminuire un sostrato ideale che fonda la violenza sociale con un processo ai colpevoli materiali è un insulto alla memoria di quei giorni e di ogni situazione di discriminazione della storia. È questo il momento esatto in cui, da film-reportage tendente alla ricostruzione storica, Detroit si spinge oltre, con uno sguardo al futuro. Il ragazzo che non è più in grado di cantare per gli uomini bianchi rappresenta il salto che ancora separa la realtà dall’immagine che pensiamo essa abbia acquisito in seguito ai nostri compromessi storici.


Detroit non è solo esercizio di stile, denuncia sociale o propaganda, si tratta di uno sguardo attento e posato sulle falle del nostro sistema, è un monito futuro che non deve essere sottovalutato né dimenticato. Riuscire a parlare di futuro in questo presente deragliato è un valore assoluto. Quando un messaggio sociale così alto incontra l’eccellenza tecnica e stilistica, si ottiene il capolavoro e il film più importante degli ultimi anni. 
Kathryn Bigelow riesce a far emergere la vergogna di essere questi uomini.

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