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venerdì 16 giugno 2017

UNA DOPPIA (POST) VERITÀ

La parola di questo 2017 finora è stata “Post-verità”. Un concetto innovativo per un fenomeno fin troppo ordinario: la secondarietà dei fatti rispetto al racconto che se ne fa. Da destra e da sinistra e da Grillo hanno attaccato questo fenomeno, puntando il dito contro chi alimentava macchine della disinformazione, quando in larga parte tutti ci basiamo su post-verità nella costruzione dei nostri pensieri, perché effettivamente la macchina sociale, al giorno d’oggi, occupa un ruolo di primaria importanza, che arriva a superare di gran lunga la fattualità, ritenuta ormai un decoro del fatto sociale. 


Una doppia verità” contestualizza in una situazione particolare il concetto di post-verità. L’avvocato Richard Ramsay, interpretato da Keanu Reeves, è incaricato di difendere il diciassettenne Mike Lassiter dall’accusa di aver ucciso brutalmente il padre. Il ragazzo è stato trovato inginocchiato accanto al corpo del padre e le sue impronte erano le uniche presenti sul coltello conficcato nello sterno dell’uomo. Un caso giudiziario a senso unico, eppure Ramsey, coadiuvato dalla giovane avvocatessa Janelle Brady, tenterà in ogni modo di convincere la giuria dell’innocenza di Mike.


Attraverso una struttura lineare e solida, caratterizzata da un’invidiabile coerenza narrativa e stilistica, il film ricostruisce gli eventi che hanno portato alla morte di Boone Lassiter e lo fa delineando dei profili ben precisi attraverso dei flashback che si ripresentano in diverse versioni a seconda dell’individuo che sta testimoniando in quel momento. Non siamo mai certi della caratterizzazione che ci viene mostrata perché essa è sempre filtrata dagli occhi del teste. Eppure una di queste versioni dei fatti dovrà essere accolta come verità da una giuria di uomini, predisposta a valutare l’essenza della realtà dei fatti. Il film si sviluppa come un gioco di scatole cinesi in cui dentro una verità c’è sempre il particolare che smonta la verità stessa e il quadro definitivo non può che essere un frastagliato ritratto degli eventi, nulla a che vedere con la realtà dei fatti. Eppure le verità sembrerebbero molteplici. Ogni narrazione potrebbe assurgersi a verità, ma la giuria, in ogni frangente, non ha mai abbastanza dati a disposizione da poter eliminare completamente la componente soggettiva della valutazione.



La metafora giudiziaria è perfetta per dare una rappresentazione della situazione odierna nell’ambito dell’informazione di massa. La giuria rappresenta il nostro altarino personale, sul quale saliamo a giudicare la realtà dei fatti e a scegliere la verità. I testimoni sono invece le influenze che quotidianamente subiamo e che spingono perché noi abbracciamo una determinata versione della realtà, indubbiamente condizionata da altri fattori, tra cui spicca la protezione della faccia di ciascuno; elementi certamente legati alla soggettività di qualcuno o di un gruppo. Interessante è anche l’aspetto collettivo della giuria, che tende a generalizzare un concetto o una scelta nell’ambito della post-verità per farne bandiera di un gruppo, al quale spesso non appartiene nessuno, di cui però tutti sentono l’influenza. Nel nostro essere animali sociali, non possiamo rifiutarci di scendere a patti con la post-verità, che è ormai parte integrante del dibattito pubblico. L’elemento soggettivo di partenza si smaterializza nella coesistenza sociale della giuria che abbiamo formato per decretare la verità e ritorna solo successivamente, per confrontarsi con la decisione assunta ormai come assoluta. Questo meccanismo, per certi versi naturale, mostra la sua pericolosità quando anche le fondamenta della scelta collettiva non rispecchiano una verità. In questi casi l’esito finale non può che essere un artificio lontano da tutto ciò che è reale e storia. E quando le verità comuni, poste a fondamento della società, crollano sotto i colpi dei fatti, gli individui perdono il senso della loro produzione di idee collettive. Non resta che la dimensione del sospetto a riempire le pieghe di un dialogo sterile che ha perso la verità, e forse non l’ha mai avuta. 

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