venerdì 8 luglio 2016

TRAUMI INFANTILI - TWILIGHT

L’uomo cerca sempre di spingersi oltre i limiti della società per sentirsi vivo e attivo. Sfidare il proibito, accogliere la perversione. In quell’autunno del 2008, noi giovani compagni delle medie decidemmo di essere cresciuti abbastanza, decidemmo fosse l’ora di vedere il nostro primo horror al cinema. Perché, quando hai tredici anni, i film horror sembrano il massimo della trasgressione: sfidi i genitori, sfidi le limitazioni. Da fuori stai andando a vedere un paio di porte che si muovono col vento, ma dentro ti pare di sfidare il mondo intero. Già mesi prima avevamo tentato di entrare al cinema per vedere Rec (capostipite dei film girati a mano che "Hardcore!" levati proprio) ma eravamo stati fermati sulla soglia dal bigliettaro perché ci volevano almeno quattordic’anni, e allora avevamo ripiegato su Jumper, che ci sta Luke Skywalker che jumpa, appunto, e si sposta nello spazio. Non lo so. Un po’ X-Men e un po’ trashata, ma una trashata con Samuel L. Jackon. Ma non perdiamoci: dicevamo del nostro secondo tentativo. Era ancora il periodo in cui internet c’era, ma noi si preferiva fare le cose su carta, e allora un giorno uno del gruppo di amici portò a scuola il volantino del cinema che gli aveva procurato il fratello più grande. E lì, tra spiritosissime frasi scritte sul diario dei compagni e palle di carta infuocate che volavano per la classe, decidemmo di andare a vedere l’horror del momento: “Twilight”.



“Oh ma com’è secondo voi?”
“Boh, ma qua dice che ci sono i vampiri”
“E i licantropi pure”
“Dai allora deve essere il massimo. Dai, andiamoci”

Il tempo di mettersi d’accordo con i genitori, che quello era ancora il periodo in cui mamma e papà ti scarrozzavano in giro. E se eri fortunato tornavano a casa durante il film e ti venivano a prendere dopo, se invece c’avevi i genitori ossessivi e asfissianti, ti aspettavano fuori dal cinema per due ore. E poi ci sono quelli che i genitori entravano a vedere il film con il figlio e gli amici del figlio che tanto “Ci mettiamo due file dietro, non ci vedete neanche”. Ma di quei genitori non voglio parlare. Ci vorrebbe la galera.

Boh

Ci recammo quindi al cinema divisi in tre macchine - perché i grupponi delle medie sono sempre sostanziosi - ma con lo stesso spirito d’avventura. La stessa irrefrenabile voglia di saltare sulla poltrona del cinema per la comparsa di un abominevole licantropo con la bocca imbrattata del sangue di giovani vittime innocenti. C’avevamo la tensione per la tensione che c’aspettava.
Poi cominciò il film, e finirono le nostre speranze. Immagino non ci sia bisogno che mi dilunghi. Virilità a mille, cagnolini a petto nudo, silenzi infiniti tra i boschi, sguardi bassi, espressioni senza espressività e vampiri sbrilluccicosi. Passammo due ore ad attendere che il film ingranasse, che si entrasse nel vivo dell’azione, che cominciasse a scorrere un po’ di sangue, ma morimmo nell’attesa. E uscimmo dal cinema confusi, indecisi sul proferir parola, convinti di aver sbagliato sala. Uscimmo e ci guardammo in faccia. A tredici anni vivi quel periodo in cui esporsi è difficile e uscire con la testa fuori dal guscio dell’opinione condivisa è utopia. E si ascoltava tutti i Guns n’ Roses, anche se avevano già vent’anni. E quindi nessuno riuscì a dire sul momento quanto quell’abominio di film gli avesse tolto la voglia di vivere nelle precedenti due ore, ma concludemmo che forse non era il massimo. Poi chissà, magari i seguiti.
Solo dopo l’uscita del film scoppio inarrestabile il momento di gloria dei libretti di Stephenie Meyer e conseguenti fan fiction (leggi “Cinquanta Sfumature di”), e solo dopo noi potemmo esternare tutto il nostro rancore per quel film che un po’ ci traumatizzò per non averci traumatizzato. Che quando attendi il peggio, è lì che il peggio ti sorprende.

Ma quanto spaccavano i Guns?

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