sabato 21 maggio 2016

QUAL È DAVVERO LA PAZZA GIOIA?

Sinceramente non ero poi così propenso ad andare a vederlo, questo film. Avevo avvertito qualcosa di retorico e di superficiale dal trailer e ciò mi aveva portato a pensare di evitarlo, perlomeno al cinema. Invece ogni giorno che passa mi rendo conto di capirci sempre meno di cinema, e stavo rischiando di perdere uno dei migliori film della stagione cinematografica italiana. Per fortuna sono capitato in sala questa settimana.
Ciò che appare immediata è la volontà di Virzì di raccontare una storia partendo dalla superficie complessa ma comprensibile, per poi gradualmente penetrare con la macchina da presa nell’inconscio turbato di due donne particolari e mostrare in realtà i meccanismi che stanno alla base della costruzione giustificata fino a quel momento solo con le parole mancate, le parole vuote. Il film di Virzì sorvola sulle pelli diverse delle protagoniste, evitando ogni forma di giudizio, evitando di assolutizzare la legge della società, ma al contempo non dando piena ragione all’azione delle due. Ciò che alla fine emerge è comunque nulla rispetto alla mole di significato sopita, che non riesce a passare attraverso il linguaggio, ma si ferma appena prima, giusto al momento di formare un groppo in gola ostruente che accomuna Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e lo spettatore.


Il duo di protagoniste è padrone indiscusso della scena. Se si volesse analizzare il film solo attraverso le immagini mostrate, il vero fulcro dell’opera sarebbe l’evoluzione del rapporto tra le due, ricoverate in un centro di salute mentale. Le donne infatti, dopo un primo momento di rigetto, derivato probabilmente dalla diversa condizione in cui vigevano nel periodo precedente alla casa di cura, stringono un rapporto sincero e schietto che passa dalla loro rocambolesca fuga per la Toscana alla ricerca della pazza gioia. Ma cos’è questa pazza gioia, che dà anche il titolo alla pellicola stessa? La pazza gioia di Virzì è quella di superare gli impedimenti occorsi con il tempo e di tornare a provare emozioni che l’offuscamento mentale impedisce di poter percepire come in precedenza. Perché la chiusura in una struttura adatta alla malattia mentale diventa chiusura interiore agli altri, alla vita e al futuro. La chiusura e la rinuncia silenziosa al futuro sono la fine della propria esistenza in favore di una lenta e costante morte interiore. La pazza gioia è la riscoperta di un mondo che ruota, di un albero che cresce, del sole che continua a sorgere ogni giorno e che, senza chiusura mentale, potrebbe rischiarare anche le zone più malinconiche di un’anima che non riesce più a costruire. La piccola, insignificante pazza gioia delle protagoniste è un soffio di vita che riaccende la speranza e ridà loro infine la forza di tornare a lottare per qualcosa. Rappresenta quindi una sorta di ritorno al ciclo della vita, nelle sue difficoltà e nelle sue piccole soddisfazioni, che rimette le protagoniste in relazione con l’umanità del prossimo. Perché nulla può l’uomo in assenza di umanità.


Questa potrebbe essere solo una lettura della superficie emersa dell’iceberg, ma, come detto, è il non detto a rappresentare il vero interrogativo, il buio che intriga lo spettatore e conferisce quella patina di mistero che si dissolve solo alla fine dell’opera. Ciò che naturalmente sfugge alla macchina da presa del livornese Virzì - e che sfuggirebbe anche al miglior Lynch - è la nube violacea che si addensa e offusca la vista della fragile Micaela Ramazzotti. Un peso gravoso che non riesce a mantenere celate anche le notevoli conseguenze che comporta. Il problema di fondo è che l’essere umano non può mai davvero comprendere a fondo il funzionamento della mente di un altro suo simile, trovandosi così a dover fronteggiare un mostro sconosciuto e inconoscibile, come la malattia mentale. E talvolta ci si trova nelle circostanze di non riuscire a trovare la giusta via per la guarigione dell’altro, e ogni forma di aiuto di trasforma invece in un’ulteriore schiaffo alla dignità e conseguentemente alla vitalità del soggetto. Comprendere appieno queste situazioni appare impresa ardua, anche per lo stesso regista, che lascia qualcosa di intentato, che sembra limitarsi in alcune circostanze per lasciare spazio alla sospensione dell’analisi e per ritagliare artigianalmente un piccolo spazio in cui l’ambiguità garantisce il beneficio del dubbio di qualcosa di migliore che non passa mai.
La verità è che la posizione dello stesso Virzì si nasconde proprio dietro queste sospensioni cinematografiche, che si traducono in sospensioni del giudizio. Ciò che emerge è la necessità di fare un passo indietro rispetto ad una realtà che, pur rientrando parzialmente nell’immaginario collettivo, non riesce ad essere compresa appieno. Il regista invita alla comprensione di un mondo sommerso che non vediamo e spesso percepiamo attraverso filtri di luci al neon a incandescenza che colorano e cancellano le difficoltà altrui per lasciare posto al nostro violento e quasi mai richiesto giudizio.

Nel finale, due scene si accavallano e si ripetono a distanza di anni. Chi dice che quella donna non sarebbe risalita da sola dall’acqua? Chi dice che, se reintegrata, il suo finale non sarebbe stato l’amore immenso? Chi dice che il giudizio pubblico possa giovare a qualcuno? Un passo indietro, senza cadere nella pietà, ma perpetrando il rispetto e la comprensione sincera di un mondo che esiste, ma non si vede. Sofferenza che si nasconde sotto la coltre violenta del nostro essere uomini.

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