Sinceramente non ero poi così propenso ad andare a
vederlo, questo film. Avevo avvertito qualcosa di retorico e di superficiale
dal trailer e ciò mi aveva portato a pensare di evitarlo, perlomeno al cinema.
Invece ogni giorno che passa mi rendo conto di capirci sempre meno di cinema, e
stavo rischiando di perdere uno dei migliori film della stagione
cinematografica italiana. Per fortuna sono capitato in sala questa settimana.
Ciò che appare immediata è la volontà di Virzì di
raccontare una storia partendo dalla superficie complessa ma comprensibile, per
poi gradualmente penetrare con la macchina da presa nell’inconscio turbato di
due donne particolari e mostrare in realtà i meccanismi che stanno alla base
della costruzione giustificata fino a quel momento solo con le parole mancate,
le parole vuote. Il film di Virzì sorvola sulle pelli diverse delle
protagoniste, evitando ogni forma di giudizio, evitando di assolutizzare la
legge della società, ma al contempo non dando piena ragione all’azione delle
due. Ciò che alla fine emerge è comunque nulla rispetto alla mole di
significato sopita, che non riesce a passare attraverso il linguaggio, ma si ferma
appena prima, giusto al momento di formare un groppo in gola ostruente che
accomuna Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e lo spettatore.
Il duo di protagoniste è padrone indiscusso della scena.
Se si volesse analizzare il film solo attraverso le immagini mostrate, il vero
fulcro dell’opera sarebbe l’evoluzione del rapporto tra le due, ricoverate in
un centro di salute mentale. Le donne infatti, dopo un primo momento di
rigetto, derivato probabilmente dalla diversa condizione in cui vigevano nel periodo
precedente alla casa di cura, stringono un rapporto sincero e schietto che
passa dalla loro rocambolesca fuga per la Toscana alla ricerca della pazza
gioia. Ma cos’è questa pazza gioia, che dà anche il titolo alla pellicola
stessa? La pazza gioia di Virzì è quella di superare gli impedimenti occorsi
con il tempo e di tornare a provare emozioni che l’offuscamento mentale
impedisce di poter percepire come in precedenza. Perché la chiusura in una struttura
adatta alla malattia mentale diventa chiusura interiore agli altri, alla vita e
al futuro. La chiusura e la rinuncia silenziosa al futuro sono la fine della
propria esistenza in favore di una lenta e costante morte interiore. La pazza
gioia è la riscoperta di un mondo che ruota, di un albero che cresce, del sole
che continua a sorgere ogni giorno e che, senza chiusura mentale, potrebbe
rischiarare anche le zone più malinconiche di un’anima che non riesce più a
costruire. La piccola, insignificante pazza gioia delle protagoniste è un
soffio di vita che riaccende la speranza e ridà loro infine la forza di tornare
a lottare per qualcosa. Rappresenta quindi una sorta di ritorno al ciclo della
vita, nelle sue difficoltà e nelle sue piccole soddisfazioni, che rimette le
protagoniste in relazione con l’umanità del prossimo. Perché nulla può l’uomo
in assenza di umanità.
Questa potrebbe essere solo una lettura della superficie
emersa dell’iceberg, ma, come detto, è il non detto a rappresentare il vero
interrogativo, il buio che intriga lo spettatore e conferisce quella patina di
mistero che si dissolve solo alla fine dell’opera. Ciò che naturalmente sfugge
alla macchina da presa del livornese Virzì - e che sfuggirebbe anche al miglior
Lynch - è la nube violacea che si addensa e offusca la vista della fragile
Micaela Ramazzotti. Un peso gravoso che non riesce a mantenere celate anche le
notevoli conseguenze che comporta. Il problema di fondo è che l’essere umano
non può mai davvero comprendere a fondo il funzionamento della mente di un
altro suo simile, trovandosi così a dover fronteggiare un mostro sconosciuto e
inconoscibile, come la malattia mentale. E talvolta ci si trova nelle
circostanze di non riuscire a trovare la giusta via per la guarigione
dell’altro, e ogni forma di aiuto di trasforma invece in un’ulteriore schiaffo alla
dignità e conseguentemente alla vitalità del soggetto. Comprendere appieno
queste situazioni appare impresa ardua, anche per lo stesso regista, che lascia
qualcosa di intentato, che sembra limitarsi in alcune circostanze per lasciare
spazio alla sospensione dell’analisi e per ritagliare artigianalmente un
piccolo spazio in cui l’ambiguità garantisce il beneficio del dubbio di
qualcosa di migliore che non passa mai.
La verità è che la posizione dello stesso Virzì si
nasconde proprio dietro queste sospensioni cinematografiche, che si traducono
in sospensioni del giudizio. Ciò che emerge è la necessità di fare un passo
indietro rispetto ad una realtà che, pur rientrando parzialmente
nell’immaginario collettivo, non riesce ad essere compresa appieno. Il regista
invita alla comprensione di un mondo sommerso che non vediamo e spesso
percepiamo attraverso filtri di luci al neon a incandescenza che colorano e
cancellano le difficoltà altrui per lasciare posto al nostro violento e quasi
mai richiesto giudizio.
Nel finale, due scene si accavallano e si ripetono a
distanza di anni. Chi dice che quella donna non sarebbe risalita da sola dall’acqua?
Chi dice che, se reintegrata, il suo finale non sarebbe stato l’amore immenso?
Chi dice che il giudizio pubblico possa giovare a qualcuno? Un passo indietro,
senza cadere nella pietà, ma perpetrando il rispetto e la comprensione sincera di
un mondo che esiste, ma non si vede. Sofferenza che si nasconde sotto la coltre
violenta del nostro essere uomini.
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