mercoledì 25 maggio 2016

MY BABY BLUE

Ci sono serie che guardi, che si lasciano guardare. Ci sono serie da ora di pranzo, quelle leggere, da guardare con la coda dell’occhio. Serie divertenti, da guardare e riguardare senza mai pretendere troppo. Serie avvincenti, che intrattengono, ma lasciano poco e si fanno dimenticare in fretta. E poi ci sono le Serie, quelle con la esse maiuscola, quelle che lasciano un segno, quelle che si associano automaticamente ad un periodo della tua vita, quelle che diventano parte di te prima che tu ti accorga quanto male abbia fatto perdere quel protagonista o quella relazione meravigliosa. Serie che diventano vita. A quest’ultima, limitata e personale categoria appartiene Breaking Bad, discesa negli inferi più oscuri dell’animo umano.



Ma di cosa parla davvero Breaking Bad? Qual è il fulcro attorno al quale si struttura l’intera serie? Potremmo stare qui ore a parlare dei personaggi secondari, dell’evoluzione di Jesse, sempre in bilico tra dipendenza e depressa inerzia, della trama gangster, di Hank e della sua indagine, ma il vero perno è sempre stato Walt, fin dal primo episodio. Breaking Bad, un concetto che in italiano risulta complesso da tradurre, ma potremmo provare con “abbandonare la retta via”, oppure, come accennato in precedenza, “scendere negli inferi”. Allora, restituendo importanza alla prima scelta significativa per un prodotto artistico, ovvero il titolo, il cuore di Breaking Bad si rivela essere il processo di mutamento, o maturazione, del protagonista che lo porta da una situazione di ordinario ed infelice anonimato ad essere uno dei signori della droga del New Mexico. Lo stesso caro, vecchio Karim, che aveva dedicato tempo fa un intero video a Breaking Bad, si era focalizzato sul cambiamento graduale, costante ed impressionante di Walter White nel corso delle cinque stagioni, una cambiamento che suscita delle riflessioni tuttora irrisolte relative alla reale attitudine dello spirito dello spietato Heisenberg. Ci troviamo di fronte ad una maturazione, ad una presa di coscienza di uno stato delle cose, ad un mutamento temporaneo del suo essere dovuto alla malattia o ad una finzione magistralmente orchestrata dall’inizio alla fine? Cosa si nasconde dietro lo sguardo corrucciato dello sciagurato prima, e freddo calcolatore poi, WW? Riuscire ad escludere completamente tutte le ipotesi per lasciarne una solamente appare una soluzione improbabile, ma potremmo cominciare a ragionare sull’evoluzione di Heisenberg partendo proprio dal discusso finale.



Ovviamente, parlando di una serie conclusasi qualche anno fa, non mi limiterò negli SPOILER da questo momento in avanti. Il finale FeLiNa, che ha diviso la critica nella sua maestosa pochezza e semplicità, mostra un altro Walt, un uomo che non avevamo ancora visto nel corso delle precedenti puntate, un uomo che sembra stanco e sconfitto, lontano dal padre di famiglia e diverso dal malvivente col cappello dei faosi schizzi. Il Walt finale sembra aver finalmente trovato una sua dimensione, la quale ammette sì una volontaria complicità nelle attività losche perpetrate nel periodo precedente, ma ancora non si dà pace per la morte di Hank, per il collasso della sua famiglia, elemento fondamentale a cui Walt non ha mai voluto rinunciare, nonostante la sua posizione glielo avrebbe consentito ampiamente in più occasioni. L’ultimo Walt non appare come un’evoluzione finale del mostro che era diventato, e neanche il ritorno all’uomo onesto e timoroso della prima stagione, ma sembra essere piuttosto il frutto di una sintesi di autocoscienza, l’unione equilibrata di più anime che avevano abitato quel corpo in precedenza, sempre sovrastandosi periodicamente.



La scena cruciale è quella della morte di Walt, realizzata in maniera ineccepibile, mostrando uno specchio della sua stessa anima nel riflesso di un macchinario per produrre blue meth, uno di quei macchinari che lui e Jesse avevano ottenuto solo abbandonando il camper per assumere una posizione relativamente importante nello scacchiere di Gus Fring. Quei macchinari attraverso cui era passata la fortuna e la sciagura dei protagonisti, invischiati in qualcosa di più grande, chiamati ad essere la parte peggiore di loro per sopravvivere in un sottomondo disumano. La scena in cui Walt si specchia nella sua creatura mostra un uomo definitivo, consapevole della propria parte oscura e consapevole della resistenza della sua umanità. Accettazione e riconoscimento di sé nello specchio che la vita gli pone davanti negli ultimi attimi della sua complessa esperienza. L’ultimo Walt sembra essere insieme il frustrato professore di chimica e lo stratega della malavita, il padre amorevole che tiene in mano la figlia appena nata e il mandante del’assassinio di Fring, il malato di cancro oppresso dalla vita e il criminale che ha lasciato morire la ragazza di Jesse per i suoi comodi. Tutto questo in una sola sbiadita figura riflessa. Walt capisce infine di non essere stato oggetto di una trasformazione passiva, ma di essere maturato, di aver mostrato quel lato oscuro che aveva e che nascondeva da sempre nella repressione che ognuno di noi attua su se stesso. La maturazione è apparsa mutamento solo in assenza di consapevolezza della cosa. Maturare è accumulare, costruire sopra, non insabbiare e rinnegare il passato.


L’ultimo Walter White, padrone della criminalità e creatore della metanfetamina blu, è soltanto un uomo che ha messo in gioco la sua realtà e il suo essere per diventare la parte di sé che già era e sentiva nelle viscere. Baby Blue è l’emblema della sua maturazione, ma anche un richiamo alle sue radici, all’amata famiglia e all’uomo perbene, frustrato e sconfitto che non ha mai davvero smesso di essere.

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