mercoledì 24 giugno 2015

STORIE DI (IM)MATURITÀ - FINALE

Il giorno era arrivato. Il mio ultimo giorno da immaturo, almeno per legge, almeno per loro. Mi svegliai molto presto con l’ansia di non alzarmi in tempo e di ritrovarmi la commissione intera in camera per un colloquio a domicilio. Ancora adesso ogni tanto nella notte scambio l’ammasso di vestiti che caratterizza la sedia di un under 30 moderno per la silouette del professore di astronomia. Ah quel professore di astronomia, quante me (ce) ne ha fatte passare per poi non riconoscerci nelle visite successive alla maturità. Che smemorato! Comunque mi alzai alle 7 per essere a scuola alle 11. Diciamo che mi piace fare le cose per tempo. Doccia, shampoo, profumo, acqua, nausea, basta acqua per piacere, rinuncerò alla colazione. Dopo aver caricato a forza una mia amica nella mia spaziale autovettura (a forza per le ridotte dimensioni dell’abitacolo, non per sua volontà) mi apprestai a raggiungere il luogo dell’apocalisse. Voglio essere sincero: se le tre precedenti prove non le avevo particolarmente sentite dal punto di vista emotivo, quel giorno ero particolarmente agitato; il fatto di dover esporre un argomento, la possibilità di non convincere, la possibilità di avere una sincope, quella di svenire, quella di vomitare sulla commissione. Tutte ipotesi da tenere presente se si soffre d’ansia e io con l’ansia ormai c’ho fatto amicizia.


Superata l’agitazione iniziale mi accorsi di essere arrivato a scuola anche prima dei professori. Notevole direi. Arrivai così presto da avere il tempo di entrare a vedere il primo orale di giornata (il mio era il quarto) fingendo di essere un estraneo disinteressato (barba finta e occhiali da sole). Il mio intento era invece quello di tastare con mano l’umore della commissione, che, se fosse stato anche solo parzialmente negativo, avevo già pronto un biglietto per “Altrove”, la città di Leone il Cane Fifone, quello che vive con Giustino e Marilù. Che poi Giustino è l’italianizzazione dell’anglofono Justin, come Justin Timberlake o Justin Bieber. Che storia! Si vede che sto prendendo tempo per evitare di parlare del mio orale?
Non ricordo con esattezza chi fosse il torturato della prima ora e che domande gli furono rivolte, ricordo solamente che mi stupì dei miei evidenti miglioramenti: avrei saputo rispondere a tutto, ecco la cartina tornasole di cui avevo bisogno. Ora ero più sicuro.
Breve recup: testa, ce l’ho, chiavetta con power point triste (bianca e scientificamente asettica in realtà), ce l’ho, sorriso piacione di chi sa che passerà ma lo dà a vedere poco, ce l’ho, documenti per identificazione alla polizia dopo violenta crisi nervosa ai danni di tutti i presenti, ce l’ho. Avevo tutto. Mi mancava forse un briciolo di maturità per potermi definire tale, ma poi avevo tutto.
Intanto, mentre io ripassavo italiano e astronomia insieme (che poi Astolfo va comunque sulla Luna), salì le scale un ex professore in pensione che, dopo due chiacchiere ansiose, mi chiese il permesso di entrare a sentire il mio orale. A questi si aggiunsero poi due amici, tre compagni, un parente alla lontana, un bidello, un mago, un gatto, un topo e un elefante. Non mancava più nessuno insomma. A parte gli scherzi, ricordo una folla indefinitamente densa intonare cori da stadio alle mie spalle durante l’esame, ma forse ho sofferto di allucinazioni in quei giorni. Il tempo passava con le stagioni a passo di Giava e mancava mezzora alla fine dell’orale precedente al mio quando, apparizione celeste, uscì la professoressa di matematica e fisica a chiedere chi fosse il prossimo. Alzai timidamente la mano. Venne da me e mi disse che quella di lettere (esterna e appassionata di cinema - ma quest’ultima cosa non centra) avrebbe chiesto entro la fine della giornata Leopardi. Leopardi. LEOPARDI? Il gobbo di Recanati?!? Io non sapevo Leopardi, e poi cosa vuol dire “sapere” Leopardi? Io il mio amico Tommaso posso conoscerlo, ma come faccio a saperlo? Via astronomia, via storia dell’arte. Solo italiano. Cominciai a leggere, ripetere e immagazzinare dati. Tentai di tatuarmi con ago e inchiostro bic e le date di nascita e di morte del gioioso Jack sulla mano senza riuscirci (gli aghi mi incutono timore), ma niente, troppe cose. Una la imparavo e tre le dimenticavo. Passai quindi ai cari vecchi riassunti di fine capitolo - Dio li benedica. Non sapevo quindi nulla dei brani. Poi uscì il mio compagno di classe e chiamarono me, me e tutta la squadra. Sulla porta mi fermò il professore di storia e filosofia per abbracciarmi. Esistono tanti abbracci nella vita di un uomo, tanti. Pochi sono quelli che il tempo non dimentica, questo è uno di quelli.


Entrai, salutai e strinsi mani a destra e a manca. Mi sedetti con le mani nelle mani tese e feci il riconoscimento. Solite frasi di alleggerimento del presidente tipo “Ma chi è questo giovine nella foto? Non sei tu vero?”. Risatina ebete di circostanza, magari anche tirando su col naso che è peggio. Era tutto pronto, dovevo cominciare a parlare. Mi recai come un alcolista alla lim e cominciai a discorrere. Inizialmente le parole uscivano a fatica, come quando passi una serata fuori e ci sono meno di meno dieci gradi. Poi la mascella cominciò a sciogliersi e le parole a fluire meno problematicamente. Arrivai ad un certo punto in cui, legato al tema dei wormhole, avrei dovuto citare Donnie Darko, ma il fato volle che la mia mente si svuotasse completamente in quel momento.
“E quindi troviamo il tema dei paradossi temporali anche in… ehm, in…” panico, silenzio, panico ancora. Goccioline di sudore che scendono già ghiacciate. Guardai il pubblico in cerca di aiuti, tipo il 50:50, ma niente. Guardai la commissione. I cinque secondi (d’estate - ma non volevo scriverla questa) più lunghi della mia vita. “In Donnie Darko!”. Il mio esame era ancora in carreggiata, solo una piccola deviazione.


Finì la mia esposizione e la professoressa di lettere mi chiese da dove volessi cominciare, ambito scientifico o umanistico? Alla commissione dissi che era indifferente, ma dentro mi sentivo come Harry quando si sottopone alla prova del cappello. “Non Serpeverde, non Serpeverde”, “Non scientifico, non scientifico” e infatti cominciai dall’umanistico. Il cappello non sbaglia.
Bene storia e filosofia, meno italiano. Leopardi. Parlai dieci minuti ininterrottamente della vita e degli aneddoti dei gelati killer, poi cominciarono le domande e anche i rumori dei vetri su cui mi arrampicavo. Tutto sommato però, a parte una diatriba maligno-matrigno, italiano andò più che discretamente. Di inglese mi chiese un argomento di quarta che fortunosamente ricordavo e quella di arte si limitò a farmi riconoscere qualche opera di Picasso. Tutto bene. Tutto perfetto fino ad astronomia. Dieci minuti di un uomo sulla sessantina che cerca di far dire ad un diciottenne “Lingue di fuoco” mimandolo a gesti mentre questo, in preda alla disperazione, butta l’occhio qua e là in ricerca di una rivoltella, preferibilmente carica. Non voglio dire disastro, ma quasi: un intero colloquio in cui il professore parlava della sua materia e io intervenivo di tanto in tanto per dire qualche parola, tipo telequiz, magari anche sbagliata. Che vergogna.
Poi arrivò fisica. Ah fisica, praticamente la mia mappa. Avrei dovuto saperla a menadito, e invece…
Mattia, devo dirti la verità, a me Donnie Darko non è piaciuto”.
E qui si vede il maturando in crisi che apre la bocca senza pensare.
“È perché è difficile, si deve capire per apprezzare”
“Mi stai dicendo che non capisco di cinema? Che sono stupida?”
“Ma noooooo. Cioè anche mia mamma non capisce”.
Fine della frittata e vergogna che sale a dismisura. Volevo nascondermi. Poi domande sulle risposte che avevo inventato una settimana prima e silenzi infiniti. Non sapevo rispondere, come per astronomia, solo che almeno qui la professoressa si limitò a trattenermi un paio di minuti.
Il colloquio era finito; già lo sentivo, quel vento di libertà che soffiava fuori dall’aula. Dopo le solite domande di rito e una stretta di mano generale guardai la commissione e vidi uomini. Coloro che mi avevano intimorito per un quasi un mese ora erano padri e madri, semplicemente persone come me, come i miei genitori, che nulla avrebbero mai fatto per mettermi in difficoltà. Paure superflue. E mentre mi allontanavo da quei banchi sentivo catene sciogliersi e ali aprirsi al vento della vita. Quelle mura mi sarebbero mancate sempre; quei volti, quei voti, quelle gite, quelle emozioni condivise. Tutto, tutto già mi mancava.


Ragazzi, la maturità non conta niente. È un voto, un numero come tanti che qualche mese dopo dimenticherete. Una passerella per i più meritevoli e un’agonia ingiustificata per i sessantini. Quello che ricorderete saranno gli anni passati in quel posto magico fuori dal mondo chiamato Scuola, o casa se lo vivete nel modo giusto. Perché finché siete lì quel posto può essere casa vostra, i professori i vostri genitori e i compagni i vostri fratelli. Un momento che non tornerà più. E mentre mi allontanavo da quei banchi sentivo che il termine "maturità" non faceva al caso mio. Su quella soglia, per l’ultima volta, non potevo dire di sentirmi maturo, ma forse un po’ meno immaturo di prima sì.

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